Mesi e mesi trascorsi nel dubbio, tra visite mediche e continui esami: la testimonianza di una paziente

“La mia storia inizia con un check-up di controllo che il mio medico mi aveva prescritto dopo una visita, durante la quale avevo spiegato che negli ultimi tempi mi sentivo piuttosto stanca e affaticata”, ricorda Sandra, residente a Fondi, in provincia di Latina, il cui calvario clinico è cominciato con un referto così pieno di asterischi da far pensare al quadro elettrico di un’auto in panne. L’emocromo di Sandra era completamente sballato: non solo i globuli rossi – e di conseguenza l’emoglobina – e i globuli bianchi erano pericolosamente scesi sotto la soglia di normalità, ma anche le piastrine erano precipitate. Le conclusioni del referto parlavano di piastrinopenia, confermata anche all’esame microscopico.

“Nel giro di pochissimo tempo mi sono ritrovata nello studio medico di un ematologo per una visita specialistica”, prosegue Sandra. “L’esperto mi parlò di una pancitopenia, una riduzione del numero di tutti gli elementi del sangue. Ha suggerito di ripetere gli esami, che hanno prodotto risultati ancora peggiori. L’emoglobina era in caduta libera come pure il numero dei globuli bianchi. Mi hanno sottoposta a un prelievo di midollo per capire se fossi affetta da leucemia, ma l’esito è stato negativo”. Nel frattempo Sandra si è vista costretta a lasciare il suo lavoro di insegnante per scongiurare il pericolo di infezioni: di fatto, la sua esistenza ha improvvisamente subito un brusco e improvviso cambiamento, senza che fosse chiara l’origine di questo scombussolamento.

“Trovarsi a stretto contatto con la malattia è stato terribile”, continua la donna. “Dopo la visita presso il primo reparto di ematologia e l’attesa per il referto, ricordo un odioso miscuglio di sensazioni: da una parte la gioia, perché non si trattava di leucemia, dall’altra la paura, perché ancora non si capiva da cosa fossi affetta. Optai per un’altra visita, alla quale seguì un secondo prelievo di midollo. L’esito della biopsia fu ancora negativo. Il mio stato di salute peggiorava sempre di più. Ero sempre più debole e stanca”. Sandra si è rivolta anche a un reumatologo per escludere il sospetto di qualche malattia autoimmune e si è sottoposta a un terzo prelievo di midollo che, anche in quel caso, ha dato esito negativo. La terapia a base di cortisone non sembrava fare effetto e poi, quando l’emoglobina è scesa a sotto la soglia dei 7 g/dL, Sandra è stata ricoverata e sottoposta a trasfusione per combattere la grave anemia.

“La diagnosi giunse a circa 4 mesi dalla comparsa dei primi sintomi: sindrome mielodisplastica (SMD)”, racconta la donna. “Allora avevo 55 anni e i medici mi dissero che si trattava di una malattia dell’anziano e che non era particolarmente frequente alla mia età. Non è stato facile farsene una ragione ma almeno sapevo da cosa ero affetta e, in un modo strano, ne fui quasi sollevata”. Da quel momento, a Sandra è stata prescritta una terapia a base di eritropoietina umana ricombinante, da assumere un paio di volte a settimana. Si trattava di una soluzione iniettabile contenuta in una siringa preriempita, che Sandra ancora oggi si inietta in autonomia e semplicità nell’addome o su una gamba. “Attualmente – spiega – ho smesso il cortisone e dopo diversi mesi sono giunta a una sola iniezione a settimana di eritropoietina. Sto meglio: l’emoglobina è tornata a livelli normali, la stanchezza e la sensazione di malessere diffuso sono scomparse, ma mi è stato spiegato che l’unica vera possibilità di cura è il trapianto di midollo. Tuttavia, per ora riesco a tenere sotto controllo la malattia. Non ho ancora recuperato del tutto perché non ho potuto riappropriarmi del mio lavoro, ma la mia condizione è migliorata. E una buona parte del merito va riconosciuta, oltre ai medici che mi hanno seguita e curata, anche all’Associazione Italiana Pazienti con Sindrome Mielodisplastica (AIPaSiM) grazie a cui ho vinto la sensazione di solitudine e isolamento che colpisce i pazienti con questa malattia. Insieme a loro ho compreso meglio la patologia e, grazie alle testimonianze di chi vive nella mia stessa condizione, mi sono sentita meno sola”.

“La storia personale e medica di Sandra è quella di molti di noi ed è la ragione per la quale, oltre due anni fa sentendomi ‘orfanello in mezzo ad orfanelli’, decisi di impegnarmi perché il male venisse conosciuto e tutelato”, spiega l’avvocato Paolo Pasini, presidente di AIPaSiM Onlus. “Il paziente è il punto di inizio e di conclusione di tutto il processo che parte dai laboratori di ricerca e arriva all’azienda farmaceutica che produce il farmaco, e poi all’ospedale, fino al circuito sanitario e alle reti ematologiche. Acquisendo la capacità di essere testimoni del loro vissuto e della loro malattia, i pazienti come Sandra offrono un grande aiuto al sistema. In tutto questo, i nuovi farmaci che bloccano la caduta dell’emoglobina e delle piastrine portano a una discreta qualità di vita, cosicché, se anche è difficile guarire, perlomeno si può vivere più degnamente”.

Un pensiero che trova conferma nelle parole del prof. Matteo Della Porta, Responsabile della sezione Leucemie dell’Unità Operativa di Ematologia dell’Humanitas Cancer Center di Milano, che spiega come nelle sindromi mielodisplastiche sia opportuno fare una distinzione tra i pazienti in fase iniziale e quelli in fase avanzata. “In quelli in fase iniziale il trattamento è legato al controllo dell’anemia”, precisa l’esperto. “Farmaci come eritropoietina, lenalidomide e nuove molecole in fase di sperimentazione, come luspatercet, sono utili per contrastare l’anemia che, nei pazienti a basso rischio di malattia, è l’elemento che incide in maniera più pesante sulla qualità di vita e rappresenta anche il maggior rischio di mortalità, perché un’anemia severa come quella che Sandra è arrivata a sperimentare, può essere connessa a episodi di scompenso cardiaco”. Diverso è il caso dei pazienti con malattia in fase avanzata dove il rischio maggiore è la trasformazione in leucemia acuta. “In questo caso, le opzioni sono due: da una parte stanno emergendo strategie mirate come quelle che impiegano farmaci anti-IDH1 e IDH2, che consentono di fare progressi in maniera personalizzata nei pazienti”, conclude Della Porta. “Dall’altra si ricorre a famaci ipometilanti, che danno un beneficio in circa il 40% dei casi. In questo caso, la sfida è quella di aumentare questa percentuale con opportune combinazioni di farmaci, e portare sempre maggiore beneficio ai malati”.

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