Tipiche degli anziani, sono in aumento sebbene restino patologie rare. Le cure (efficaci e ben tollerate) esistono, ma troppo spesso si rinuncia perché i malati sono over 70 (di Vera Martinella)
Sono poco note, ma in aumento e cresceranno ancora di più nei prossimi anni, anche perché colpiscono prevalentemente gli anziani e in Italia l’invecchiamento generale della popolazione è un fatto ormai noto. Le sindromi mielodisplastiche sono un eterogeneo gruppo di rare patologie del sangue che interessano il midollo osseo causandone una progressiva riduzione nella capacità di produrre cellule ematiche. Ad oggi non è dato sapere quanti italiani ne soffrano. «Vanno considerate non solo come condizioni pre-leucemiche, ma come tumori fin dall’inizio – spiega Fabrizio Pane, presidente della Società Italiana di Ematologia -. A lungo però questo non è accaduto e non sono state inserite nei registri tumori che raccolgono i casi si ogni singola patologia a livello nazionale. Per questo motivo è tutt’ora difficile dare dei numeri precisi sulla loro effettiva diffusione». Fino a pochi anni fa giudicate incurabili, ora sono invece diverse le possibili terapie a disposizione, in grado di prolungare la sopravvivenza dei malati e di migliorarne la qualità di vita. «Si tratta – aggiunge Pane – di patologie che devono essere correttamente inquadrate e curate. Deve essere evitato l’atteggiamento nichilistico, ancora molto diffuso, perché nella stragrande maggioranza dei casi interessano ultrasettantenni».
Dall’ematologo per impostare la terapia
La presenza di una sindrome mielodisplastica dovrebbe essere sospettata in presenza di un paziente anziano che abbia un’anemia da insufficienza midollare non riconducibile ad altre cause di anemia e, ancora di più, se associata alla riduzione del valore dei globuli bianchi o delle piastrine. «Spesso le sindromi mielodisplastiche non vengono riconosciute in fase iniziale, mentre è molto importante poter avere una diagnosi precoce e precisa, per poter impostare la terapia migliore» dice Giorgina Specchia, professore ordinario di Ematologia e direttore dell’Unità di Ematologia con Trapianto all’Azienda Ospedaliera Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, durante un incontro organizzato in occasione del congresso annuale della Società Europea di Ematologia a Milano. Trattandosi di malattie più frequenti negli anziani, specie dai 70 anni in più, non di rado si arriva alla diagnosi in modo occasionale perché ci sono dei valori anormali in analisi del sangue eseguite per altri motivi. «Per capire con precisione di quale patologia si tratta – prosegue Specchia – bisogna fare degli esami specifici ed è bene che il paziente venga subito indirizzato da un ematologo che faccia eseguire i test in grado di valutare quali sono le alterazioni genetiche presenti e tutte le altre indagini opportune per inquadrare non solo il tipo di sindrome in questione, ma anche se il rischio di evoluzione della malattia verso una leucemia acuta è basso, intermedio o elevato. Solo così si possono scegliere le cure migliori, tenendo conto delle caratteristiche biologiche e genetiche della patologia, dell’età del paziente, delle altre eventuali malattie di cui soffre e del suo stato di salute generale».
Vari schemi di cura per ottenere buoni risultati
Nella maggior parte dei casi, queste sindromi non hanno una sintomatologia specifica e i sintomi sono spesso dovuti alla presenza di anemia (pallore, spossatezza, affanno), alla piastrinopenia (con conseguenti «macchie» tipo lividi dovute alle emorragie) o a infezioni ricorrenti per la presenza di un numero ridotto di globuli bianchi. «Guarire è possibile – chiarisce Valeria Santini, professore associato di Ematologia presso l’Università di Firenze – con un trapianto di cellule staminali, che però può essere una procedura troppo “pesante” da sopportare per persone anziane e magari con altri disturbi. In tutti gli altri casi si può comunque intervenire per prolungare la sopravvivenza, ritardare l’evoluzione in leucemia e dare una qualità di vita buona ai pazienti». I farmaci da somministrare sono diversi e gli esperti hanno elaborato un complesso algoritmo da seguire, che somiglia alle ramificazioni di un albero: a seconda del tipo di malattia, di come il paziente reagisce e di come evolvono le cose si passa “da un ramo all’altro”, tenendo in considerazione i vari parametri da misurare. «C’è uno schema per i pazienti a basso rischio e uno per quelli a rischio elevato di progressione della malattia – conclude Santini -. Così facendo è possibile ottenere buoni risultati, così come in molti casi si può rendere i pazienti liberi dalle continue trasfusioni di sangue e dare loro medicinali ben tollerati da prendere a casa».
Fonte: Corriere della Sera –13 giugno 2014