Uno studio dimostra che le diverse modalità di rapporto attivano precisi, e differenti, circuiti cerebrali. Un passo importante per capire quanto l’empatia possa influenzare il successo di un trattamento

di Danilo di Diodoro
Corriere della Sera/Salute, 26 febbraio 2019
 
 
 
Una relazione medico paziente empatica non solo rende meno gravosa la malattia ma rappresenta una vera forma ausiliaria di cura, arrivando a modificare il funzionamento di complesse reti neuronali attraverso le quali il cervello governa processi decisionali e comportamenti.
 

È quanto emerge dalla ricerca F.I.O.R.E., realizzata dalla Fondazione Onlus Giancarlo Quarta di Milano con l’Università di Udine attraverso l’utilizzo di una metodica di neuroimaging basata sulla risonanza magnetica funzionale.
Chiunque si rivolga al medico, oltre a desiderare di essere trattato secondo principi di provata efficacia, ha bisogno di comprensione emotiva, attenzione e riconoscimento della propria individualità, elementi che contribuiscono al successo della cura. Ma questo è un modello ideale che non sempre si concretizza nelle relazioni reali tra medici e pazienti, strette tra tecnicismi e tempi di visita soffocati. «È per questo che all’interno delle ricerche realizzate dalla Fondazione Quarta è stato sviluppato il Modello relazionale Ippocrates» dice Andrea Di Ciano, coordinatore ricerche scientifiche della Fondazione Giancarlo Quarta. «Un sistema che individua cinque aree di bisogni relazionali che dovrebbero sempre essere garantiti all’interno della relazione terapeutica. Si tratta del bisogno da parte del paziente di comprendere razionalmente quanto sta accadendo; di farsi un’idea del futuro che lo attende; di esprimere adeguatamente le proprie emozioni; di ricevere le necessarie attenzioni, e di arrivare, infine, a prendere le decisioni che la condizione di malattia comporta».

 

La ricerca F.I.O.R.E., il cui protocollo è stato sviluppato con la partecipazione di Lucia Giudetti Quarta, presidente della Fondazione, ha coinvolto 30 volontari sani.
Mentre erano sottoposti a risonanza magnetica funzionale, sono state mostrate loro vignette che rappresentavano situazioni definite di influenzamento e di valorizzazione e altre di tipo neutro. Le prime sono situazioni di relazione interpersonale in cui emergono la disponibilità a fornire un aiuto concreto, motivare e dare speranza; le seconde sono situazioni nelle quali vengono espressi apprezzamento per le azioni svolte e l’adesione razionale ed emotiva.

 

Mentre i soggetti sperimentavano questi stati d’animo, centrali nella relazione terapeutica, venivano registrate le corrispondenti attivazioni di varie reti neuronali.
È così che si è giunti a individuare le positive modificazioni che possono verificarsi nel funzionamento cerebrale anche di un paziente in analoghe circostanze: le condizioni di influenzamento attivano reti che coinvolgono zone di corteccia cerebrale quali il solco temporale superiore-posteriore e il giro temporale superiore-posteriore, deputate tra l’altro a processare stimoli visivi e sociali; le condizioni di valorizzazione arrivano reti che interessano la corteccia visiva, coinvolta nei fenomeni di gratificazione. Spiega Daniele Olivo, ricercatore dell’Università di Udine che si è occupato degli aspetti più tecnici della ricerca F.I.O.R.E.: «Abbiamo lavorato su soggetti sani e in una situazione non medica, però riteniamo che la ricerca abbia consentito di identificare i circuiti cerebrali che si attivano in situazioni di influenzamento e valorizzazione, un’attivazione che abbiamo ragione di credere rispecchi quello che avviene anche nella reale relazione medico-paziente. Si tratta di circuiti associati a fenomeni come la cosiddetta teoria della mente – la capacità di riconoscere, interpretare e predire i comportamenti delle altre persone – e l’empatia».

 

Questa ricerca contribuirà a migliorare le relazioni tra medico e paziente, attualmente gravate da molti problemi «Diversi studi hanno confermato che quando un paziente inizia a parlare, il medico lo ascolta solo per pochi secondi prima di interromperlo — dice Alan Pampallona, direttore generale della Fondazione Quarta. «In tal modo si perde l’opportunità di un ascolto importante non solo ai fini della diagnosi e della terapia, ma anche della costruzione di un rapporto significativo.
Questo accade probabilmente per una carenza formativa di molti medici, oppure per una condizione di burn-out dovuta all’eccessiva pressione del lavoro, o a causa dei tempi della visita che per motivi organizzativi sono sempre più contratti». Il problema della disponibilità di tempo è centrale in questo rapporto. Ricorda Marco Gemma, direttore della struttura complessa di Anestesia e rianimazione del Fatebenefratelli-Sacco di Milano: «Il tempo è parte integrante degli strumenti di cura, ma l’organizzazione dei servizi sanitari va in un’altra direzione, al contrario di quanto avviene in altri Paesi nei quali, forse grazie anche a una diversa situazione demografica, vi si presta molta attenzione. Come ho visto a Reykjavík, in Islanda, dove molto tempo è dedicato al colloquio con pazienti, parenti e caregiver, anche da parte di figure professionali considerate poco inclini a questo tipo di attività, come i chirurghi».

 

Le aree del cervello coinvolte nella comunicazione: guarda il grafico

febbraio 2019

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